stampa RICORSO ALL'AUTORITA' GIUDIZIARIA
PER L'AUMENTO DEL LIVELLO DELLE PENSIONI DI INVALDITA'
 

Segnaliamo di seguito il ricorso al Tribunale di Torino presentato dal Sig. A.B. a tutela della figlia S.B., colpita da disabilità grave che l’ha resa non autosufficiente e quindi impossibilitata a svolgere qualsiasi attività lavorativa.
Il ricorso è rivolto contro l’Inps ed ha lo scopo di ottenere l’aumento della pensione di invalidità, il cui livello attuale è di euro 279,47 al mese per 13 mesi, importo che sicuramente non consente di soddisfare le esigenze fondamentali di vita.


Nel ricorso viene richiesto che il livello della pensione di invalidità venga portato almeno a quello del trattamento minimo di cui all’articolo 38 della 488/2001 (501,89 per tredici mensilità) o, in via subordinata, all’assegno sociale (448,07 euro per tredici mensilità), o comunque ad un importo che assicuri il decoroso mantenimento della ricorrente secondo la previsione dell’articolo 38 della Costituzione. Al riguardo ricordiamo che il 1° comma dell’articolo 38 della Costituzione stabilisce quanto segue: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».


Chiediamo pertanto di voler segnalare l’iniziativa soprattutto allo scopo di promuovere altri ricorsi analoghi o diretti ad ottenere un importo delle pensioni di invalidità che assicuri il minimo vitale economico.
In merito ricordiamo che l’indennità di accompagnamento non costituisce reddito, avendo lo scopo di compensare, purtroppo in misura molto limitata, le maggiori spese che le persone con disabilità devono sostenere rispetto ai cittadini privi di minorazioni.

 

TESTO DEL RICORSO

Tribunale di Torino, Sezione Lavoro

– Ricorso nell’interesse di S. B., nata a A.B. l’11 settembre 1971 e residente in Torino via C. D., in persona del Tutore V. B. nato a E. F. il 6 dicembre 1948 e residente in Torino via C. D. elettivamente domiciliato in Torino via Castellamonte 1 presso lo studio degli avvocati Mario Motta ed Annamaria Torrani Cerenzia che la rappresentano e difendono sia congiuntamente che disgiuntamente per delega telematica con l'invito ad effettuare le comunicazioni e le notificazioni nel corso del procedimento al fax 011.4347098 o agli indirizzi di posta elettronica mariomotta@pec.ordineavvocatitorino.it e annamariatorranicerenzia@pec.ordineavvocatitorino.it, contro Inps, in persona del presidente pro tempore, con sede in Roma via Ciro il Grande 21 (Cap 00144).

1. La ricorrente percepisce la pensione di inabilità di cui all’articolo 12 della legge 118/1971. La pensione in questione, per l’anno 2016, ammonta all’importo mensile di euro 279,47 (oltre ad euro 10,33 mensili spettanti ai sensi della legge 388/2000), erogato per 13 mensilità.
Come è noto, il percepimento di tale trattamento pensionistico presuppone l’accertamento di una “totale inabilità lavorativa”. In particolare, la ricorrente è costretta sulla sedia a ruote e non potrebbe, senza l’aiuto di terzi, compiere i più normali atti della vita quotidiana. S. B. è affetta da tetraplegia spastica neonatale; ha bisogno ogni giorno, tutti i giorni dell’anno, di essere alzata, lavata (è incontinente), vestita, messa in carrozzella, nutrita, spostata di postura per evitare piaghe: senza qualcuno che se ne prenda cura in modo continuativo morirebbe. La ricorrente, inoltre, disponendo di limitate risorse intellettive e comunicative (non sa parlare), non è neppure in grado di esprimere il proprio disagio o la propria sofferenza a chi la assiste. E dunque, così come accade quando si prestano cure ad un neonato, la ricorrente deve essere assistita interpretandone gli sguardi ed i gemiti, in modo da comprendere la natura e le origini dei dolori che essa manifestata.

2. La ricorrente, evidentemente, percepisce una pensione largamente insufficiente a garantire il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale, come prescritto dall’articolo 38, 1° comma della Carta costituzionale.
La corretta portata del primo comma dell’articolo 38 deve essere compresa e integrata facendo riferimento alle fonti internazionali che disciplinano la materia in questione con una forza giuridica di rango superiore alla legge ordinaria.
La convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità stipulata a New York il 13 dicembre 2006 e resa esecutiva nel nostro ordinamento con legge 18/2009, cui ha aderito l’Unione europea con la decisione del Consiglio n. 2010/48/CE del 26 novembre 2009 e che quindi vincola il legislatore italiano, agli articoli 4 e 28, garantisce ai disabili «il diritto ad un livello di vita adeguato» ed «il diritto delle persone con disabilità alla protezione sociale» (articolo 28) ed impone agli Stati, «con riferimento ai diritti economici, sociali e culturali», di «prendere misure, sino al massimo delle risorse di cui dispone …» (articolo 4, 2° comma).
Inoltre, la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, all’articolo 26, sancisce il rispetto del «diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia», mentre, all’articolo 34, garantisce ai disabili, ed a coloro che si trovino in condizioni di non autonomia (malati, anziani, donne in maternità, etc.) «il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali». Il diritto di cui si discute, pur dovendo essere bilanciato in certa misura con le esigenze della finanza pubblica, non può certo essere compresso oltre limiti irragionevoli. In particolare, la pensione di inabilità è sensibilmente e irragionevolmente inferiore all’assegno sociale previsto dall’articolo 3, 6° e 7° comma della legge 335/1995 e garantito a coloro che, trovandosi in stato di bisogno economico, hanno raggiunto l’età di 65 anni e tre mesi: tale trattamento, infatti, per l’anno 2016, ammonta all’importo mensile di euro 448,07 euro per tredici mensilità. La pensione di inabilità, inoltre, è sensibilmente e irragionevolmente inferiore al trattamento minimo, stabilito originariamente dall’articolo 38 della legge 488/2001, oggi ammontante all’importo mensile di euro 501,89 e garantito a pensionati che dispongano di determinati requisiti di età e di reddito.
Occorre considerare che, in realtà, neppure l’assegno sociale è in grado di assicurare il decoroso mantenimento della persona. In merito, è significativa la giurisprudenza formatasi anteriormente alla recente riforma dell’articolo 545 Codice di procedura civile (di cui si dirà) in materia di pignorabilità dei trattamenti pensionistici, a seguito della pronuncia di Corte costituzionale 506/2002 che ha stabilito l’impignorabilità della quota di pensione destinata a garantire i «mezzi adeguati alle esigenze di vita». La nozione di «mezzi adeguati alle esigenze di vita», secondo il consolidato insegnamento della Suprema Corte (cfr. Cass., 6548/2011), doveva essere stabilita dal Giudice dell’Esecuzione, attraverso una prudente valutazione, da motivarsi in modo congruo e logico. La Suprema Corte, nello stabilire tale principio (si veda appunto la motivazione di Cass., 6548/2011), aveva considerato congrua e logica la motivazione del Giudice dell’Esecuzione che aveva ritenuto come riconducibile «alla comune esperienza» la convinzione della «totale insufficienza» dell’assegno sociale (ammontante oggi, come si è detto, ad euro 448,07 mensili) «a garantire le minime esigenze di vita del pensionato, ivi comprendendovi gli esborsi per l’alimentazione indispensabile per sopravvivere, per il vestiario e per l’abitazione».
Infatti, risultava ampiamente consolidato, presso i Giudici dell’Esecuzione, l’orientamento che faceva coincidere la nozione di «mezzi adeguati alle esigenze di vita» con il trattamento minimo, stabilito originariamente dall’articolo 38 della 488/2001, oggi ammontante all’importo mensile di euro 501,89 e garantito a pensionati che dispongano di determinati requisiti di età e di reddito. Recentemente, con la modifica dell’articolo 545 7° comma del Codice di procedura civile operata dall’articolo 13, 1° comma, lettera l) del decreto legge 83/2015, lo stesso legislatore ha stabilito la impignorabilità di quella parte del trattamento pensionistico pari «alla misura massima mensile dell’assegno sociale, aumentata della metà»
Ne consegue che, se neppure l’assegno sociale ha un importo tale da garantire il decoroso mantenimento di una persona, a maggior ragione deve essere considerata assolutamente inadeguata la pensione di inabilità, che ha una misura sensibilmente inferiore rispetto all’assegno sociale.

3. In conclusione, poiché la pensione di inabilità non consente ai suoi beneficiari di disporre di risorse sufficienti per il loro decoroso mantenimento, si eccepisce la illegittimità costituzionale dell’articolo 12 della legge 118/1971 per violazione degli articoli 3, 2° comma, e 38 della Costituzione e per violazione, sotto il profilo della violazione della norma interposta, degli articoli 10 e 117, 1° comma della Costituzione in quanto detta previsione di legge contrasta con gli articoli 4 e 28 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità stipulata a New York il 13 dicembre 2006 nonché con gli articoli 26 e 34 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, la disposizione di legge in questione è costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che i beneficiari della pensione di inabilità percepiscano un emolumento pari al trattamento minimo di cui all’articolo 38 della legge 488/2001 o, in subordine, all’assegno sociale previsto dall’articolo 3, 6° e 7° comma della legge 335/1995 o comunque ad un importo che assicuri il loro decoroso mantenimento.

4. Sussiste un ulteriore importante profilo di illegittimità costituzionale dell’articolo 12 della legge 118/1971, in quanto tale disposizione di legge discrimina irragionevolmente i disabili totalmente inabili al lavoro rispetto ad altre categorie di soggetti che, al pari dei disabili, non sono in grado di procurarsi autonomamente i mezzi necessari al loro sostentamento.
In particolare, è discriminante e irragionevole che i disabili titolari della pensione di inabilità percepiscano un trattamento sensibilmente inferiore al trattamento minimo di cui all’articolo 38 della legge 488/2001 e all’assegno sociale di cui all’articolo 3, 6° e 7° comma, della legge 335/1995. Non si vede, infatti, per quale ragione un disabile totalmente inabile al lavoro dovrebbe ricevere un trattamento meno favorevole rispetto ad un anziano che non ha mai lavorato o a un pensionato il cui trattamento minimo viene integrato, per ragioni di solidarietà sociale, ad un trattamento minimo che gli assicuri mezzi adeguati alle sue esigenze di vita.
I parametri costituzionali cui è sottoposta la materia in esame ed il principio generale di uguaglianza dell’articolo 3, 1°comma della Costituzione non giustificano affatto la disparità di trattamento che si è ora illustrata, ma al contrario pongono chiari vincoli che avrebbero dovuto indurre il legislatore ad equiparare sostanzialmente i trattamenti assistenziali destinati a coloro che non sono in grado di provvedere al proprio mantenimento.
Il primo comma dell’articolo 38 Costituzione, garantendo indistintamente a «Ogni cittadino inabile al lavoro…» il «…mantenimento e l’assistenza sociale», stabilisce un principio di ordine generale che evidentemente deve valere sia per i disabili totalmente inabili al lavoro che gli anziani ultrasessantacinquenni. Il 2° comma dell’articolo 38 – è vero –, riferendosi ai «lavoratori», vale a dire a coloro che hanno prestato, almeno per un certo periodo, una attività lavorativa, utilizza, rispetto al 1° comma del medesimo articolo, la differente espressione «mezzi adeguati alle loro esigenze di vita». Tuttavia, si deve riconoscere che una corretta interpretazione dei principi costituzionali, anche con riguardo alla evoluzione delle fonti internazionali in materia, cui l’Italia ha volontariamente aderito, impone di ritenere che, per nessuna valida ragione, un disabile che non abbia mai potuto lavorare in ragione della sua disabilità dovrebbe meritare un trattamento assistenziale inferiore ad un lavoratore che non sia in grado per ragioni di anzianità di procurarsi i mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita.
La Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità stipulata a New York il 13 dicembre 2006 (che costituisce a seguito dell’adesione dell’Unione europea una fonte di rango costituzionale) sancisce, a più riprese, il divieto di discriminazione nei confronti dei disabili. Il divieto di discriminazione è uno dei principi generali sancito dall’articolo 3, mentre, all’articolo 4, i Paesi contraenti si impegnano (comma I, lettera b) «ad adottare tutte le misure, incluse quelle legislative, idonee a modificare o ad abrogare qualsiasi legge, regolamento, consuetudine e pratica vigente che costituisca una discriminazione nei confronti delle persone con disabilità». In merito alla protezione sociale, poi, l’articolo 28, 2° comma lettera e) impone ai Paesi contraenti di «garantire alle persone con disabilità pari accesso ai programmi ed ai trattamenti pensionistici», mentre, in generale, è previsto che il diritto alla protezione sociale debba essere garantito «senza alcuna discriminazione». La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’articolo 21, ricomprende espressamente la disabilità fra le cause di discriminazione vietate dall’Unione, mentre all’articolo 26 viene sancito il diritto di autonomia economica del disabile con lo stesso vigore riservato all’indipendenza economica degli anziani, cui è dedicato il precedente articolo 25. Del resto, l’articolo 34, in tema di sicurezza e assistenza sociale, mira a tutelare in modo indifferenziato le varie categorie di soggetti svantaggiati, assicurando «il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti».
Infine, il divieto di discriminazione nei confronti dei disabili, con particolare riguardo alle prestazioni sociali di tipo economico, viene sancito anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, sulla base dell’articolo 14 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e dell’articolo 1 del Protocollo addizionale di Parigi del 20 marzo 1952 (protezione della proprietà).

5. In conclusione, l’articolo 12 della legge 118/1971 è costituzionalmente illegittimo per violazione degli articoli 3, 1° comma e 2° comma e 38 della Costituzione e per violazione, sotto il profilo della violazione della norma interposta, degli articoli 10 e 117, 1° comma della Costituzione con riguardo agli articoli 3, 4 e 28 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità stipulata a New York il 13 dicembre 2006, con riguardo gli articoli 21, 26 e 34 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché con riguardo all’articolo 14 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e del successivo articolo 1 del Protocollo addizionale di Parigi (protezione della proprietà), in quanto discrimina irragionevolmente i disabili totalmente inabili al lavoro rispetto agli anziani ultrasessantacinquenni, beneficiari dell’assegno sociale previsto dall’articolo 3, 6° e 7° comma della legge 335/1995, e rispetto ai pensionati beneficiari del trattamento minimo di cui stabilito all’articolo 38 della legge 488/2001.

6. La proposizione del presente ricorso è stata autorizzata dal Giudice tutelare in data 12 gennaio 2015 ai sensi dell’articolo 374 del Codice civile.

7. Il tutore, prima di adire l’Autorità giudiziaria, presentava in data 2 agosto 2015 formale istanza per ottenere l’adeguamento della pensione di inabilità sino agli importi indicati nel presente ricorso. All’istanza, tuttavia, seguiva il rigetto da parte dell’Istituto previdenziale con provvedimento del 16 febbraio 2016. Avverso il rigetto veniva proposto ricorso amministrativo in data 7 marzo 2016, nei confronti del quale, sino ad oggi, non è intervenuta alcuna decisione.
Tanto premesso, S. B. in persona del suo Tutore ricorre al Tribunale di Torino affinchè fissi udienza di comparizione delle parti e di discussione della causa per l'accoglimento delle seguenti conclusioni
In via preliminare, voglia il Tribunale di Torino rimettere con ordinanza alla Corte costituzionale, ai sensi dell’articolo 1 della legge costituzionale 1/1949 e dell’articolo 23 della legge 87/1953, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 12 della legge 118/1971 per violazione degli articoli 3, 1° e 2° comma e 38 della Costituzione e per violazione, sotto il profilo della violazione della norma interposta, degli articoli 10 e 117, 1° comma della Costituzione con riguardo agli articoli 3, 4 e 28 della Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità stipulata a New York il 13 dicembre 2006, con riguardo gli articoli 21, 26 e 34 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché con riguardo all’articolo 14 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e del successivo articolo 1 del Protocollo addizionale di Parigi (protezione della proprietà), dopo avere ritenuto la stessa non manifestamente infondata, per le seguenti ragioni:
- in quanto detta disposizione non prevede che i beneficiari della pensione di inabilità percepiscano un emolumento pari al trattamento minimo di cui all’articolo 38 della legge 488/2001 o, in subordine, all’assegno sociale previsto dall’articolo 3, 6° e 7° comma della legge 335/1995 o comunque ad un importo che assicuri il loro decoroso mantenimento;
- in quanto detta disposizione discrimina irragionevolmente i disabili totalmente inabili al lavoro rispetto agli anziani ultrasessantacinquenni, beneficiari dell’assegno sociale previsto dall’articolo 3, 6° e 7° comma della legge 335/1995, e rispetto ai pensionati beneficiari del trattamento minimo di cui stabilito all’articolo 38 della 488/2001.
Nel merito, voglia il Tribunale di Torino, in accoglimento del presente ricorso, dichiarare tenuta e condannare Inps a corrispondere la pensione di inabilità prevista dall’articolo 12 della legge 118/1971 in misura:
- non inferiore al trattamento minimo di cui all’articolo 38 della 488/2001, pari all’importo mensile di euro 501,89 per tredici mensilità;
- o comunque non inferiore all’assegno sociale previsto dall’articolo 3, 6° e 7° comma, della legge 335/1995, pari all’importo mensile di euro 448,07 euro per tredici mensilità;
- o comunque ad un importo che assicuri il decoroso mantenimento della ricorrente secondo la previsione dell’articolo 38 della Costituzione.
Con il favore delle spese.
Il presente giudizio verte in materia previdenziale ed è sottoposto al pagamento del contributo unificato nella misura di euro 43,00.
Si producono: (omissis)

Torino, 20 settembre 2016
Avv. Mario Motta


www.fondazionepromozionesociale.it